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La casa dei bambini

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Devo dire che al termine della lettura di questo romanzo, dovendolo riporre in una metaforica, quanto ipotetica, libreria, ho esitato parecchio pensando sullo scaffale di quale tematica sistemarlo. Ovvero che posto attribuirgli nei miei ricordi, che ruolo fargli rivestire nella mia continua formazione. Ho tentennato su alcuni temi principali che la narrazione affronta e, forse sviato dal titolo, ho iniziato a pensare alla maternità negata. Infatti il romanzo muove i primi passi fra le solide mura di un orfanatrofio, e proprio il tentativo di scalare il muro/simbolo è uno dei primi episodi narrati. Quando l’autore ci fa entrare nell’edificio, che accoglie i bambini e le loro misteriose “vice-madri”, incontriamo i vari personaggi e le loro storie. Questa casa è sia reclusione sia rifugio, i bambini vi stanno perché privi di genitori o perché i genitori hanno voluto liberarsi di loro? È una delle domande che serpeggia lungo le prime pagine. Ma, leggendo, viene anche il sospetto che l’orfanatrofio serva a tenere isolati i bambini dal mondo esterno, troppo instabile e pericoloso. L’orfanatrofio assurge, così, a simbolo della maternità privata del materno e ridotta a mera appartenenza forzata, cui sfuggire, ma anche rifugio che tiene indissolubilmente a sé i congiunti, benché privati della loro storia e del legame affettivo. Nella seconda parte della narrazione ritroviamo i bimbi ormai cresciuti, la casa viene abbandonata e la vita prosegue nel mondo esterno. I protagonisti sono privati, di nuovo, del legame, gettati fra le braccia di vincoli importanti per la crescita ma sempre emendati dal sentimento, e dal sentimentalismo. L’ambiente da domestico si fa ostile, vi è una sanguinosa guerra civile in corso e molti degli adulti hanno animi ombrosi e corrotti. Si creano così nuovi legami, oserei dire crudi, anche audaci, in grado di spingere gli elementi in alto verso vette mirabili, penso all’eroismo, ma anche in abissi di oscurità, di prova e abbandono. Abissi in cui si perde, definitivamente, il cuore per poi ricucirselo addosso come si può, il come lo si è dovuto imparare in fretta così che spesso si ritrova a battere, incompreso, da una parte del petto che parrebbe sbagliata, ma che, nell’intimo, si intuisce essere un cedimento necessario, ineluttabile. Nella terza sezione si re-incontra l’appartenenza, collocata di nuovo in un materno deprivato, ci si sente dalla parte del giusto, del vincitore, ma il prezzo pagato è alto, è un legame che resta pencolante, come cavi dell’alta tensione recisi da un violento temporale. Urge riallacciarli, è necessario ma è pericoloso, perché possono restarvi appese parti di sé.

Nel finale, magistrale, la narrazione torna al luogo di partenza, sfigurato: cosa ci resta dei ricordi d’infanzia dopo che con essi si è combattuta una guerra, sicuramente giusta, coraggiosa, ma altrettanto ingiusta se collocata in un ambito differente? È compito di uno dei bambini riportare il legame nel luogo dell’origine, mediante uno slittamento delirante, ovvero lucidissimo, decontestualizzato e per questo rivelatore.

Pertanto, attraverso questa lettura, su quale scaffale si colloca, per me, nel segreto del mio animo, questo romanzo? Lo collocherei nel reparto, vasto, scuro e mai abbastanza esplorato, della paura ancestrale dell’uomo moderno. La narrazione, col suo apparire quasi decontestualizzata, mancando un dove e un quando immediatamente individuabili, sembrerebbe parlare di archetipi, cui ognuno può dare i connotati che sente più rappresentativi.

La prima paura che si incontra, nella vita e in questo romanzo, e credo di poter affermare che ha accomunato ciascuno di noi, è quella ancestrale della perdita della madre, ovvero del rifugio e dell’abbraccio. Perdita rimpiazzata dai protagonisti del libro con una sorta di simulacro, una casa feticcio capace di ridare un senso alla fanciullezza, sebbene poi questo senso, a tratti, si riveli per quello che è, un altrove timoroso in una provvisorietà. Questo obbliga ad inventare mille madri per sentirsi figli e fratelli, rivelando così la vera e profonda essenza di quel che si chiama “famiglia”: l’amore e l’appartenenza. Uscendo dal rifugio dell’orfanatrofio si va incontro a quello che è uno dei più sentiti timori del nostro tempo, giunto a noi dai millenni, quello della guerra, che stravolge famiglie, sicurezze, fa piantare un pugnale nel petto di chi si è dimostrato amico, o addirittura fratello. Ma anche capace di ingenerare una paura speculare, come una vertigine, quella di sentirsi in pace solo nella sopraffazione, amare l’ebbrezza estrema dei gesti forti e risolutivi, congiungersi in una funzione capace di sostituire l’identità; cui fa da corollario il terrore della non vittoria, di arrivare a piantare la bandiera della propria appartenenza su un terreno usurpato, sul quale ancora ci sono i segni, addirittura i cadaveri, a indicare il prezzo pagato per il trionfo, duplice e beffardo, definitivo ed effimero. Nell’ultima delle tre parti, quella dell’età matura, del raccolto e del riposo, fa capolino un’altra paura umana, quella terribile del non appartenere, del non essere appartenuti, e basta un fioco lume in lontananza per far accorrere a rinsaldare un legame che sembrava non essere mai esistito prima di essere spezzato.

 

Un romanzo molto bello questo di Michele Cocchi, in cui traspare l’esperienza, dello scrittore e dello studioso della mente umana, nel tratteggiare personaggi quasi epici portatori dell’essere di chiunque. Il collante della vicenda è un linguaggio semplice, lineare, spoglio di orpelli o vezzi e per questo forte di una lunga tradizione, capace di portare la narrazione fuori di un tempo ben preciso e collocarlo direttamente nella sfera dell’esperienza, del vissuto. Ecco, allora, su quest’ultima riflessione, un sunto della lettura potrebbe proprio essere nel dire di questo romanzo che è un libro che vive e pulsa accanto al lettore, lo rende partecipe e dopo l’ultima pagina si colloca direttamente nel vissuto, come una esperienza, anche dura, ma necessaria.

 

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